E' di stamattina una dichiarazione di Berlusconi, ripresa dal Corriere della Sera: il Cavaliere, intervenendo telefonicamente a un incontro di forzisti a Napoli, ha rivendicato la paternità del disegno di riforma della legge elettorale che lunedì approderà alla Camera dei Deputati in prima lettura. "Le riforme di Renzi, sono le nostre - dice il Cavaliere - dopo vent'anni di insulti forse abbiamo trovato l'interlocutore nel nuovo leader del Pd", riferendosi al neo-segretario toscano. Così il leader in pectore di Forza Italia pone la propria firma sul testo di riforma, frutto dell'accordo siglato con Renzi una settimana fa, dopo oltre due ore di incontro nella sede del Pd al Nazareno. "Alcune di queste riforme - rilancia Berlusconi - sono quelle che approvammo già in Parlamento e che la sinistra cancellò con un referendum sciagurato. Altrimenti, l'Italia sarebbe un paese moderno già da anni". Con note al vetriolo il Cavaliere inaugura così la sua personale campagna elettorale, tentando di cavalcare l'ondata di ritrovata attenzione mediatica e fronteggiare il segretario Pd che, dal canto suo, pur di incassare l'accordo sulla riforma, da esibire come vessillo in vista delle prossime elezioni, ha accettato l'imposizione di Forza Italia sulle liste bloccate, anche a costo di provocare una frattura all'interno del suo stesso partito. Ora si attende la contromossa di Renzi, che certo non si farà attendere visto che il sindaco ha legato all'approvazione di questo pacchetto di riforme (revisione del titolo V e riorganizzazione del senato) il proprio futuro da leader Pd. Fonti lo danno impegnato a ultimare il testo prima dell'approdo in commissione riforme, dove l'iter non parte sotto i migliori auspici, vista la composizione della commissione nella quale Cuperlo batte Renzi 13 a 8.
sabato 25 gennaio 2014
venerdì 24 gennaio 2014
Rottamazione? Iniziamo dalle preferenze.
Quante
volte negli ultimi mesi hanno tentato di convincerci che era meglio
rottamare?
Ci siamo convinti, l'abbiamo fatto. Abbiamo rottamato. O meglio, loro hanno rottamato.
Ci siamo convinti, l'abbiamo fatto. Abbiamo rottamato. O meglio, loro hanno rottamato.
Al
momento, almeno per quanto riguarda le vicende interne al Partito
Democratico tale rottamazione sembra aver cominciato a produrre i
suoi effetti. Se tali effetti siano positivi o negativi non ci
interesserebbe stabilirlo se non fosse che ci si trova costretti a
registrare uno spargimento (per la verità metaforico) di sangue e
diverse teste mozzate. Una guerra civile, apparente, un tutti contro
tutti, in cui si imbracciano fucili, ci si appunta le dichiarazioni
al vetriolo del compagno di minoranza del partito per replicare ma,
in verità, solo per procrastinare sempre un po' più in là il
principio della fine. Le schermaglie interne al Pd producono nei più
il più assoluto disinteresse. Esse sono, però, il sintomo più
evidente del fallimento di un fenomeno, quello della rottamazione,
che avrebbe potuto garantire più di quello che, al momento, ha
effettivamente realizzato.
Partita con il proposito di rottamare una
classe dirigente e placare definitivamente le divergenze interne al
partito, la gestione Renzi al momento annovera solo l'acuirsi delle
medesime storiche contrapposizioni e una conduzione quasi patriarcale
del partito, dove il dissenso non è contemplato. Sì, certo, si può
sostenere che Renzi non abbia fatto altro che replicare un
comportamento familiare ai leader di sinistra (l'accordo col giaguaro
sul testo di riforma della legge elettorale) ma tale convergenza di
abitudini non può e non deve divenire un'attenuante per chi si è
autoproclamato come il nuovo e di tale ideale ha fatto il cuore della
sua ascesa politica.
Ė naturale per chi è abituato a vivere la
politica in maniera passiva accontentarsi delle parole e reclamare i
fatti solo nel segreto della cabina, per poi cambiare bandiera e
avventurarsi nella sperimentazione di nuove dimensioni politiche:
l'indeciso cronico petulante rappresenta il modello dell'elettore
medio in Italia, disposto a cambiare casacca, da destra sinistra, da
Forza Italia al Pd, dal Pdl a Rivoluzione Civile fino a giocarsi il
tutto per tutto con i Cinque Stelle di Grillo.
Non
sarebbe meglio, in quanto elettori, reclamare l'esercizio del diritto
di rappresentatività nei confronti dei nostri parlamentari e dei
nostri rappresentati, dentro e fuori i palazzi delle istituzioni?
Invece di lamentarci a posteriori dell'insensatezza della prossima
legge elettorale, un Porcellum rottamato più che un Italicum degno
di questo nome, perché non fare qui, adesso, una battaglia
quotidiana, per esempio, sull'introduzione delle preferenze? Non c'è
appartenenza politica che tenga in una battaglia per la legalità
poiché tale è quella sulle preferenze. Perché, allora, non
pretendere da Renzi, dai renziani, dagli alfaniani, dai meloniani, da
tutti coloro che si autoproclamano come il “nuovo” il rispetto
del nostro diritto, nostro quanto loro, di scegliere i nostri
rappresentanti, senza il listino bloccato, effetto del solito dictat
dell'onnipresente e redivivo Berlusconi?
Si
parte sempre dalle piccole cose e la rottamazione avrebbe dovuto
partire proprio da questo per farci credere che sì, stavolta è
diverso.
Le
riunioni della segreteria alle sette e mezzo del partito, la parità
di genere e la sbandierata età media sui “30 anni” dei
componenti di tale segreteria non bastano a certificare l'avanzata
del nuovo. La politica si misura secondo l'unità di misura del
“fare”, come sostiene lo stesso Renzi. Qui, però, si è fermi al
“mostrare, al far credere di fare”.
L'Italicum
degno di tale nome, un modello di legge elettorale esportabile anche
all'estero sarebbe un gran passo, un gesto pratico e simbolico
importante per Renzi come leader e come modello politico.
Chissà
se Renzi si accontenterà di divenire l'ennesima meteora del panorama
politico italiano o deciderà di apporre un sigillo importante
nell'evoluzione e per il futuro del nostro paese, ridando spessore
etico e morale alla più nobile e antica delle arti, la politica.
Un
unico consiglio: Matteo, fidati, cambia verso. Ma per davvero.
Da pochi giorni è possibile aderire alla sottoscrizione "Preferisco le preferenze" per l'introduzione delle preferenze nel testo di riforma di legge. Per informazioni e sottoscrizioni clicca qui www.change.org
Bene, bravi, bis!
Ogni istante mi inchioda a fare i conti
col fallimento.
Sono stanca, distrutta, in uno stato di
omeostasi in cui né mangio né dormo né penso né vivo.
Ė solo un momento, dicono tutti. Un
momento a cui hai dato troppa importanza e che poi, in fondo, non è
così tanto doloroso o mostruoso, perlomeno non più di quelli che ti
ritroverai ad affrontare in futuro. E magari rimpiangerai di poter
avere ancora preoccupazioni del genere. E tutte le tue reazioni ti
saranno sembrate esagerate, al limite del buon senso, ancora per un
po' compatibili con la razionalità.
Bene, bravi, bis!
Non sono ancora impazzita, ho ben
chiaro i limiti della razionalità e il cammino verso la follia.
Ė solo che, sinceramente, rivendico il
sacrosanto diritto di vivere con libertà le mie emozioni: la rabbia,
la frustrazione, la paura di un potenziale fallimento, l'adrenalina e
l'ansia da prestazione. Ė il giro di boa della mia vita, il punto di
svolta, l'evento che attendo da sempre, da quando ho capito o forse
mi sono illusa che la vita è lavoro e impegno, costanza e tenacia,
fare per essere e per sentirsi vivi. Non ho contemplato il fallimento
nel mio progetto di vita. Non ho pensato potesse arrivare e proprio
ora che quasi mi viene incontro, o potrebbe venirmi incontro, lo
rifuggo, lo magnifico, lo temo, e mentre lo temo non faccio nulla per
arginarlo, affidandomi al più tipico dei comportamenti fatalistici,
che mai il mio approccio da illuminista, da razionalista convinta,
avrebbe contemplato di adottare. Il fato è la soluzione giusta per
fronteggiare il fallimento, me ne convinco sempre più, ora dopo ora,
in un vortice di auto-convinzione che mi impedisce di rasentare i
confini della pazzia e il baratro dell'esaurimento. E sono nel mezzo,
tra il destino e l'autodeterminazione, tra me e quello che potrei
essere, tra ciò che sarà e quello che sarebbe potuto divenire.
Nel frattempo, però, mi sono convinta
che forse è meglio vivere mentre aspetto di conoscere il vincitore
fra il destino e la determinazione.
lunedì 22 aprile 2013
Zero Zero Zero sbarca a Bologna. Saviano incontra i lettori
Stasera, ore
21, Feltrinelli di Piazza Ravegnana, Bologna. Roberto Saviano incontra i lettori nella storica libreria all’ombra
delle due Torri, in occasione della presentazione del suo nuovo libro Zero Zero Zero. Interverrà Silvia Avallone, autrice del bestseller Acciaio. Allestito anche un maxischermo per far fonte alla massiccia presenza di fan e
curiosi.
Lo scrittore napoletano, a sette anni dal
fortunato Gomorra, torna a interrogare
le coscienze dei lettori, raccontando il mondo che ruota intorno al traffico
internazionale di cocaina. Un viaggio dedicato non soltanto alle questioni della
dipendenza e del consumo, ma al ruolo che la cocaina ha assunto come motore dell’economia
mondiale: quali imperi sorregge la cocaina? Come vengono riciclati i soldi del
narcotraffico? Che ruolo hanno le organizzazioni criminali in questo immenso
business? Quali i legami tra la coca, l’economia e la finanza internazionale?
L’ultima
fatica di Saviano non è solo una proposta di lettura ma una vera e propria
occasione di impegno civico, che vuole tenere accesi i riflettori sulla
criminalità organizzata e spiegare al lettore i meccanismi che le permettono,
attraverso la “polvere bianca”, di quotare le aziende in borsa, condizionare
gli appalti pubblici e ricilare il denaro sporco in paradisi off-shore.
Ecco perché chi
è a Bologna stasera, che lo ami o lo odi, non può fare a meno di andare ad
ascoltare Roberto Saviano. E’ un gesto di civiltà, non solo di pura curiosità. Vale
la vecchia regola d’oro “bisogna conoscere per comprendere”.
E io ho
scelto di comprendere.
giovedì 4 ottobre 2012
Reality: un film – terapia
Di ritorno dalla visione di Reality, la nuova fatica cinematografica di Matteo Garrone, non
posso non porgere l’invito a recarsi al cinema. Non resterà un consiglio, diventerà
un obbligo dopo aver letto queste quattro righe. Consiglierei la visione soprattutto
ad una particolare categoria di soggetti, gli ammalati o potenziali tali di
popolarità. Sì, perché Reality è un’ottima
terapia d’urto per coloro i quali sono convinti che per realizzarsi nella vita è
necessario farsi vedere in mutande in tv, possibilmente su reti nazionali, per
almeno quattro - cinque mesi, sperando di varcare la porta rossa per ultimi o
di conquistarsi un amore da copertina con una corteggiatrice tv. Un film obbligatorio
per questi soggetti, salutare per tutti coloro che hanno due ore da passare
seduti in poltrona, davanti allo
schermo.
Garrone inquadra la storia
di un pescivendolo di provincia, Luciano. Luciano vive nella città dai primati
negativi, sempre al primo posto nelle
peggiori classifiche del mondo: Napoli.
Ha una moglie, tre figli e una barca di parenti con cui, come nel più
classico dei cliché legati alla
meridionalità, si sposta costantemente insieme: al mare, in casa, alle feste
comandate, in piscina di domenica pomeriggio. Non ha una grande istruzione e il
suo unico strumento per conoscere la vita, insieme alle truffe che imbastisce
con la moglie, è il tubo catodico. Si capisce che la tv ha forgiato le menti, i
desideri e i sogni dei protagonisti di questa storia: Luciano e la sua famiglia
confondono la realtà con la finzione; finiscono per passare la giornata
attaccati al cellulare, aspettando che arrivi la fatidica chiamata: non più
quella del Signore ma quella del Grande Fratello. Sì, perché, agli occhi di
questa gente, il Grande Fratello è sinonimo di “sistemazione”, di “affermazione”,
di “popolarità”: è l’unico mezzo per
mettere fine ad una vita di stenti e di
preoccupazioni. Luciano si presenta ai provini, pressato dai figli, da bambini
che supplicano il padre di sostenere il colloquio per entrare nella casa più
spiata d’Italia, con capricci e ricatti infantili prima riservati esclusivamente
a caramelle e giocattoli. Il Big Brother
è diventato uno stile di vita, per grandi e piccini e lo capisci dall’insistenza
con cui Garrone punta la macchina da presa sulla bambina che strilla, attaccata
alla sottana di mammà, sperando che
il padre acconsenta a sostenere il provino. Passano le ore, passano i giorni ma
quella chiamata non arriva. Luciano vende tutto, vende la pescheria “perché con
quei soldi potremo ristrutturare casa. Non sia mai che ti vengono a fare un’intervista
in quello schifo. Che facciamo la figura dei pezzenti?”. Il programma comincia
ma lui non perde le speranze e s’ammattisce nell’attesa di quella convocazione
che mai arriverà. Da qui comincia il Grande Fratello del nostro protagonista,
convinto che i responsabili del programma lo controllino segretamente per
valutarne le capacità. Si convince che deve mostrarsi per quel che non è,
finendo per regalare alla gente di strada la sua casa pezzo dopo pezzo e a
nascondersi dagli sguardi della gente per la vergogna di una mancata partecipazione
televisiva. Il finale, un po’ scontato, riesce comunque a fornire la chiave interpretativa
del film. E' un buon palliativo psicologico Reality che, attraverso il racconto di
una storia, spalma sullo schermo l’azione sobillatrice di più di un decennio di
produzione spazzatura, talmente tanto incorporata nelle nostre abitudini da
averne forgiato anche le menti. Reality
è un film in cui, per una volta, sorridere ti pesa. Reality
è un film nel quale gli stereotipi del meridionali panzuti, fracassoni e
perennemente in cucina a friggere l’impossibile sono solo lo sfondo di un’altra
storia. I napoletani di Garrone, per una volta, hanno altri problemi: la
famiglia è l’incubatrice di speranze vuote e vane, sempre pronta ad accoglierti
a diventare parte di un fun club cittadino
pronto a sostenerti non per la corsa al Nobel ma per la conquista di un
pacchetto di comparsate in discoteca.
Reality è un film esteticamente
meraviglioso, di cui ti innamori già dal piano-sequenza iniziale, da manuale del
cinema. I luoghi e le scenografie non sono niente senza le luci e la regia di
uno dei migliori Garrone di sempre. Uscita dalla sala cinematografica, avrei voluto
pensarlo io Reality. Avrei voluto
avere io l’acutezza di partorire una meta riflessione di celluloide sullo “shock
da Grande Fratello”. Si, perché la mancata partecipazione al Re dei reality ha
dato vita ad una sindrome depressiva, tema e sfondo, a mio modestissimo parere,
di uno dei più bei film della storia del cinema italiano.
sabato 9 giugno 2012
Assenza ed assenti: uno stile di vita.
È l’una di notte. Dormire? Non ne parliamo nemmeno:
terremoto, purtroppo, non è una parola che fa rima con il verbo dormire o
qualsiasi altra locuzione presente nel paradigma del sonno.
Sono giorni che tento di farmi venire in mente un soggetto
intelligente su cui scrivere. E sono giorni che niente soddisfa la mia vena da
scrittrice sfigatella e alle prime armi. Potrei scrivere della mia nevrosi da
universitaria, potrei scrivere della mia insoddisfazione da ventitreenne,
potrei scrivere dei pensieri insulsi che mi passano per la testa, potrei
scrivere della mia strana ossessione a studiare e osservare per ore le persone
che mi passano accanto. Potrei scrivere della paura di perdere o sbagliare
treno, della dose quotidiana di imbranataggine e goffaggine che mi porto nella
borsa. Potrei scrivere di guerra e pace, di onesti e disonesti, ragionare sui
massimi sistemi, parlare dell’aumento della benzina, della nuova IMU.
E, invece, mi va di scrivere dell’assenza e
degli assenti.
L’assenza è una condizione molto più ricorrente di quanto si
possa mai immaginare.
La avverti
maggiormente se la fonte è qualcuno che hai conosciuto ed ora non c’è più. Te la senti addosso
quando hai litigato con qualcuno e pensavi di bastare a te stessa. La porti con te, quando ti sei lasciata a
casa, quando, con le cuffie alle orecchie, immagini come sarebbe il mondo in
tua assenza: qualcuno l’avvertirebbe mai la tua assenza? Così si dimostra che l’assenza è molto più
presente nelle nostre vite di quanto sembri. È molto più presente in quanto è
tangibile, visibile, inascoltabile. L’assenza va a braccetto con un’altra
condizione, il silenzio. Un silenzio molto più rumoroso del caos di qualsiasi
capitale alle otto del mattino.
E’ così, in compagnia del
mio silenzio, che percorro, spesso, i tragitti da somarello delle strade
cittadine; pensando all’assenza e agli assenti in un silenzio che si scontra
con il rumore assordante del clacson che m’avverte quando, intontita, attraverso
le strisce pedonali con il semaforo per i pedoni rosso da una vita, che anche
un non vedente se ne sarebbe accorto. Intanto, salva da un potenziale
investimento, riportata alla realtà dagli insulti dell’autista, con nonchalance
proseguo il cammino. Comincio a fare i conti degli assenti della mia vita. Uno,
due, tre... sono molti! C’è chi è stato espulso, ed anche con sommo piacere.
C’è chi è andato via spontaneamente, coloro che hai perso per strada, quelli
con cui hai un rapporto ad intermittenza, quelli che, tutto sommato, stai bene
anche senza. E, ti rendi conto, che nelle assenze degli assenti ci sguazzi
abbastanza bene. L’assenza è una colpa tua. Colpa tua che non metti radici, che
viaggi, perché per te niente è mai abbastanza. Colpa tua, che non dai tempo ai rapporti di terminare la
cottura: ti piacciono abbastanza al dente, le conoscenze. Non è così da una
vita: è la storia della tua vita. Ho una repulsione nei confronti delle
certezze e della staticità, del camino in casa e delle pantofole consumate. È
un bene? Forse sì, forse no. Ciò che è sicuro, però, è che tutto ciò mi
impedisce di instaurare relazioni stabili e con un minimo di speranza di
vita. Abortiscono tutte al primo giro di
boa. E puntualmente ritornano le assenze e gli assenti.
E resti di nuovo da sola?
No. Sei già pronta per altre presenze e preparata a goderti la
loro trasformazione in tante, diverse e sorprendenti assenze.
domenica 6 maggio 2012
Avessi avuto un credo, almeno sarei morta da illusa.
Stanotte, il salotto buono di Piazza Maggiore è stato la culla
di una profonda discussione, di una di quelle ormai rare e sempre più povere
occasioni a sfondo culturale a cui vorresti tanto partecipare ma a cui spesso la
visione dell’ultima puntata dell’Isola dei Famosi ti impedisce di aderire. Appena
ti risvegli, in una incerta domenica di maggio, nasce l’esigenza di farne un
post, e di approfondire spunti e barlumi di idee che, data l’ora tarda o l’alcool,
non sei riuscita ad esporre.
Si, perché, ai più, potrà sembrare assurdo ma, per me, la
profondità d’animo, l’intelligenza, il mettersi in discussione sono ancora un
valore aggiunto. E tutto ciò si è materializzato in un sabato bolognese, nel
classico scontro tra menti eccelse, votate al sacro vincolo delle scienze dure,
e poveri, incerti e illusi umanisti (con ogni probabilità, futuri precari più
dei compari scienziati) che credono nella forza del pensiero e nell’incertezza
delle lettere.
Poi ci sei tu, che di certezze non ne hai manco mezza e che
ti maledici perché la letteratura latina
al liceo e l’attimo fuggente in tv
hanno plasmato la tua mente a tal punto da portarti a mettere in discussione
ogni minuto della tua vita la tua persona, i tuoi ideali, le tue convinzioni. E
un po’ li invidi i tuoi amici che, giusta o sbagliata che sia, una certezza
nella vita credono di averla, vi sono saldamente aggrappati e non la
mollerebbero per nulla al mondo. Forse pensi che fare del relativismo un credo
non serva poi tanto a ventitré anni, che, con una frase fatta, faresti meglio a
vivere la vita “con più leggerezza”. Ci provi, così come proveresti un gusto
assurdo sul cono gelato, ma ti accorgi che, in fondo, la “pesantezza” a cui eri
abituata non ti pesa così tanto e forse ti manca pure un po’ . E, se non sei
credente, non puoi nemmeno illuderti di interpretare questo peso come un dono
divino, un regalo che manderesti
volentieri indietro se almeno conoscessi il mittente. Frattanto continui a
tediare te stessa, senza trovare una soluzione. E’ un labirinto senza uscita
quello in cui ti sei cacciata in questa vita. E, posto che, non essendo
religiosa, credi fermamente di avere sola questa, non ti resta che accettare
che sei rimasta fregata e che la leggerezza non potrà mai essere il paradigma
della tua vita. Andare controcorrente
serve a chi? A te? A che prezzo? Ne vale la pena? Ogni tanto penso, farebbe
bene anche una capatina dallo psicologo, o almeno questo mi consiglierebbero in
molti. Ma io credo in un esercizio diverso, molto meno ortodosso ma più
medicamentoso: la scrittura. Niccolò Ammaniti sostiene che scrivere è come
andare in bicicletta: più ti eserciti, più cadi e ti sbucci le ginocchia, prima
e meglio impari. Scrivere per me è anche questo. Ma è in primo luogo un atto
egoistico, una liberazione dalla gabbia in cui la mia timidezza e la mia
apparente freddezza mi tengono costretta e non permettono di farmi conoscere per quella che
sono, pazza o normale, idealista o realista, vecchia a vent’anni o saggia fra
gli sprovveduti. E’ questione di punti di vista, ma io, intanto, coltivo il
mio. Lo coltivo perché è l’unico momento della mia esistenza in cui non mi
sento a disagio, lo coltivo perché voglio
dire quello che penso senza fraintendimenti, lo coltivo perché non sono tanto
brava a parlare, e ho talmente tanti pensieri da esternare che questi si
accavallano e mi mandano in confusione. Questo è il precetto, in sostanza, che
mi permette di fare di un sabato sera un’occasione di riflessione, perché ritengo che ogni momento vissuto è un’occasione utile
a rendere sempre più gravoso il peso che mi porto dentro e forse anche a
convincermi che non ne vale la pena.
Ps: la partita fra pseudo scienziati e umanisti squattrinati
si è conclusa con un pareggio e una stretta di mano. Sarebbe potuta arrivare ai
rigori, ma s’era fatto troppo tardi; il custode doveva chiudere e c’ha
cacciato. Cronaca di un incontro che
poteva finire male.
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