Stanotte, il salotto buono di Piazza Maggiore è stato la culla
di una profonda discussione, di una di quelle ormai rare e sempre più povere
occasioni a sfondo culturale a cui vorresti tanto partecipare ma a cui spesso la
visione dell’ultima puntata dell’Isola dei Famosi ti impedisce di aderire. Appena
ti risvegli, in una incerta domenica di maggio, nasce l’esigenza di farne un
post, e di approfondire spunti e barlumi di idee che, data l’ora tarda o l’alcool,
non sei riuscita ad esporre.
Si, perché, ai più, potrà sembrare assurdo ma, per me, la
profondità d’animo, l’intelligenza, il mettersi in discussione sono ancora un
valore aggiunto. E tutto ciò si è materializzato in un sabato bolognese, nel
classico scontro tra menti eccelse, votate al sacro vincolo delle scienze dure,
e poveri, incerti e illusi umanisti (con ogni probabilità, futuri precari più
dei compari scienziati) che credono nella forza del pensiero e nell’incertezza
delle lettere.
Poi ci sei tu, che di certezze non ne hai manco mezza e che
ti maledici perché la letteratura latina
al liceo e l’attimo fuggente in tv
hanno plasmato la tua mente a tal punto da portarti a mettere in discussione
ogni minuto della tua vita la tua persona, i tuoi ideali, le tue convinzioni. E
un po’ li invidi i tuoi amici che, giusta o sbagliata che sia, una certezza
nella vita credono di averla, vi sono saldamente aggrappati e non la
mollerebbero per nulla al mondo. Forse pensi che fare del relativismo un credo
non serva poi tanto a ventitré anni, che, con una frase fatta, faresti meglio a
vivere la vita “con più leggerezza”. Ci provi, così come proveresti un gusto
assurdo sul cono gelato, ma ti accorgi che, in fondo, la “pesantezza” a cui eri
abituata non ti pesa così tanto e forse ti manca pure un po’ . E, se non sei
credente, non puoi nemmeno illuderti di interpretare questo peso come un dono
divino, un regalo che manderesti
volentieri indietro se almeno conoscessi il mittente. Frattanto continui a
tediare te stessa, senza trovare una soluzione. E’ un labirinto senza uscita
quello in cui ti sei cacciata in questa vita. E, posto che, non essendo
religiosa, credi fermamente di avere sola questa, non ti resta che accettare
che sei rimasta fregata e che la leggerezza non potrà mai essere il paradigma
della tua vita. Andare controcorrente
serve a chi? A te? A che prezzo? Ne vale la pena? Ogni tanto penso, farebbe
bene anche una capatina dallo psicologo, o almeno questo mi consiglierebbero in
molti. Ma io credo in un esercizio diverso, molto meno ortodosso ma più
medicamentoso: la scrittura. Niccolò Ammaniti sostiene che scrivere è come
andare in bicicletta: più ti eserciti, più cadi e ti sbucci le ginocchia, prima
e meglio impari. Scrivere per me è anche questo. Ma è in primo luogo un atto
egoistico, una liberazione dalla gabbia in cui la mia timidezza e la mia
apparente freddezza mi tengono costretta e non permettono di farmi conoscere per quella che
sono, pazza o normale, idealista o realista, vecchia a vent’anni o saggia fra
gli sprovveduti. E’ questione di punti di vista, ma io, intanto, coltivo il
mio. Lo coltivo perché è l’unico momento della mia esistenza in cui non mi
sento a disagio, lo coltivo perché voglio
dire quello che penso senza fraintendimenti, lo coltivo perché non sono tanto
brava a parlare, e ho talmente tanti pensieri da esternare che questi si
accavallano e mi mandano in confusione. Questo è il precetto, in sostanza, che
mi permette di fare di un sabato sera un’occasione di riflessione, perché ritengo che ogni momento vissuto è un’occasione utile
a rendere sempre più gravoso il peso che mi porto dentro e forse anche a
convincermi che non ne vale la pena.
Ps: la partita fra pseudo scienziati e umanisti squattrinati
si è conclusa con un pareggio e una stretta di mano. Sarebbe potuta arrivare ai
rigori, ma s’era fatto troppo tardi; il custode doveva chiudere e c’ha
cacciato. Cronaca di un incontro che
poteva finire male.