domenica 6 maggio 2012

Avessi avuto un credo, almeno sarei morta da illusa.


Stanotte, il salotto buono di Piazza Maggiore è stato la culla di una profonda discussione, di una di quelle ormai rare e sempre più povere occasioni a sfondo culturale a cui vorresti tanto partecipare ma a cui spesso la visione dell’ultima puntata dell’Isola dei Famosi ti impedisce di aderire. Appena ti risvegli, in una incerta domenica di maggio, nasce l’esigenza di farne un post, e di approfondire spunti e barlumi di idee che, data l’ora tarda o l’alcool, non sei riuscita ad esporre.
Si, perché, ai più, potrà sembrare assurdo ma, per me, la profondità d’animo, l’intelligenza, il mettersi in discussione sono ancora un valore aggiunto. E tutto ciò si è materializzato in un sabato bolognese, nel classico scontro tra menti eccelse, votate al sacro vincolo delle scienze dure, e poveri, incerti e illusi umanisti (con ogni probabilità, futuri precari più dei compari scienziati) che credono nella forza del pensiero e nell’incertezza delle lettere.
Poi ci sei tu, che di certezze non ne hai manco mezza e che ti maledici  perché la letteratura latina al liceo e l’attimo fuggente in tv hanno plasmato la tua mente a tal punto da portarti a mettere in discussione ogni minuto della tua vita la tua persona, i tuoi ideali, le tue convinzioni. E un po’ li invidi i tuoi amici che, giusta o sbagliata che sia, una certezza nella vita credono di averla, vi sono saldamente aggrappati e non la mollerebbero per nulla al mondo. Forse pensi che fare del relativismo un credo non serva poi tanto a ventitré anni, che, con una frase fatta, faresti meglio a vivere la vita “con più leggerezza”. Ci provi, così come proveresti un gusto assurdo sul cono gelato, ma ti accorgi che, in fondo, la “pesantezza” a cui eri abituata non ti pesa così tanto e forse ti manca pure un po’ . E, se non sei credente, non puoi nemmeno illuderti di interpretare questo peso come un dono divino,  un regalo che manderesti volentieri indietro se almeno conoscessi il mittente. Frattanto continui a tediare te stessa, senza trovare una soluzione. E’ un labirinto senza uscita quello in cui ti sei cacciata in questa vita. E, posto che, non essendo religiosa, credi fermamente di avere sola questa, non ti resta che accettare che sei rimasta fregata e che la leggerezza non potrà mai essere il paradigma della tua vita.  Andare controcorrente serve a chi? A te? A che prezzo? Ne vale la pena? Ogni tanto penso, farebbe bene anche una capatina dallo psicologo, o almeno questo mi consiglierebbero in molti. Ma io credo in un esercizio diverso, molto meno ortodosso ma più medicamentoso: la scrittura. Niccolò Ammaniti sostiene che scrivere è come andare in bicicletta: più ti eserciti, più cadi e ti sbucci le ginocchia, prima e meglio impari. Scrivere per me è anche questo. Ma è in primo luogo un atto egoistico, una liberazione dalla gabbia in cui la mia timidezza e la mia apparente freddezza mi tengono costretta e non  permettono di farmi conoscere per quella che sono, pazza o normale, idealista o realista, vecchia a vent’anni o saggia fra gli sprovveduti. E’ questione di punti di vista, ma io, intanto, coltivo il mio. Lo coltivo perché è l’unico momento della mia esistenza in cui non mi sento a disagio,  lo coltivo perché voglio dire quello che penso senza fraintendimenti, lo coltivo perché non sono tanto brava a parlare, e ho talmente tanti pensieri da esternare che questi si accavallano e mi mandano in confusione. Questo è il precetto, in sostanza, che mi permette di fare di un sabato sera un’occasione di riflessione, perché ritengo  che ogni momento vissuto è un’occasione utile a rendere sempre più gravoso il peso che mi porto dentro e forse anche a convincermi che non ne vale la pena.
Ps: la partita fra pseudo scienziati e umanisti squattrinati si è conclusa con un pareggio e una stretta di mano. Sarebbe potuta arrivare ai rigori, ma s’era fatto troppo tardi; il custode doveva chiudere e c’ha cacciato.  Cronaca di un incontro che poteva finire male.