giovedì 4 ottobre 2012

Reality: un film – terapia


Di ritorno dalla visione di Reality, la nuova fatica cinematografica di Matteo Garrone, non posso non porgere l’invito a recarsi al cinema. Non resterà un consiglio, diventerà un obbligo dopo aver letto queste quattro righe. Consiglierei la visione soprattutto ad una particolare categoria di soggetti, gli ammalati o potenziali tali di popolarità. Sì, perché Reality è un’ottima terapia d’urto per coloro i quali sono convinti che per realizzarsi nella vita è necessario farsi vedere in mutande in tv, possibilmente su reti nazionali, per almeno quattro - cinque mesi, sperando di varcare la porta rossa per ultimi o di conquistarsi un amore da copertina con una corteggiatrice tv. Un film obbligatorio per questi soggetti, salutare per tutti coloro che hanno due ore da passare seduti in poltrona, davanti  allo schermo.
 Garrone inquadra la storia di un pescivendolo di provincia, Luciano. Luciano vive nella città dai primati negativi,  sempre al primo posto nelle peggiori classifiche del mondo: Napoli.  Ha una moglie, tre figli e una barca di parenti con cui, come nel più classico dei cliché legati alla meridionalità, si sposta costantemente insieme: al mare, in casa, alle feste comandate, in piscina di domenica pomeriggio. Non ha una grande istruzione e il suo unico strumento per conoscere la vita, insieme alle truffe che imbastisce con la moglie, è il tubo catodico. Si capisce che la tv ha forgiato le menti, i desideri e i sogni dei protagonisti di questa storia: Luciano e la sua famiglia confondono la realtà con la finzione; finiscono per passare la giornata attaccati al cellulare, aspettando che arrivi la fatidica chiamata: non più quella del Signore ma quella del Grande Fratello. Sì, perché, agli occhi di questa gente, il Grande Fratello è sinonimo di “sistemazione”, di “affermazione”, di “popolarità”: è l’unico  mezzo per mettere fine ad una vita di stenti  e di preoccupazioni. Luciano si presenta ai provini, pressato dai figli, da bambini che supplicano il padre di sostenere il colloquio per entrare nella casa più spiata d’Italia, con capricci e ricatti infantili prima riservati esclusivamente a caramelle e giocattoli. Il Big Brother è diventato uno stile di vita, per grandi e piccini e lo capisci dall’insistenza con cui Garrone punta la macchina da presa sulla bambina che strilla, attaccata alla sottana di mammà, sperando che il padre acconsenta a sostenere il provino. Passano le ore, passano i giorni ma quella chiamata non arriva. Luciano vende tutto, vende la pescheria “perché con quei soldi potremo ristrutturare casa. Non sia mai che ti vengono a fare un’intervista in quello schifo. Che facciamo la figura dei pezzenti?”. Il programma comincia ma lui non perde le speranze e s’ammattisce nell’attesa di quella convocazione che mai arriverà. Da qui comincia il Grande Fratello del nostro protagonista, convinto che i responsabili del programma lo controllino segretamente per valutarne le capacità. Si convince che deve mostrarsi per quel che non è, finendo per regalare alla gente di strada la sua casa pezzo dopo pezzo e a nascondersi dagli sguardi della gente per la vergogna di una mancata partecipazione televisiva. Il finale, un po’ scontato, riesce comunque a fornire la chiave interpretativa del film. E' un buon palliativo psicologico Reality che, attraverso il racconto di una storia, spalma sullo schermo l’azione sobillatrice di più di un decennio di produzione spazzatura, talmente tanto incorporata nelle nostre abitudini da averne forgiato anche le menti. Reality è un film in cui, per una volta, sorridere ti pesa. Reality è un film nel quale gli stereotipi del meridionali panzuti, fracassoni e perennemente in cucina a friggere l’impossibile sono solo lo sfondo di un’altra storia. I napoletani di Garrone, per una volta, hanno altri problemi: la famiglia è l’incubatrice di speranze vuote e vane, sempre pronta ad accoglierti a diventare parte di un fun club cittadino pronto a sostenerti non per la corsa al Nobel ma per la conquista di un pacchetto di comparsate in discoteca.
Reality è un film esteticamente meraviglioso, di cui ti innamori già dal piano-sequenza iniziale, da manuale del cinema. I luoghi e le scenografie non sono niente senza le luci e la regia di uno dei migliori Garrone di sempre. Uscita dalla sala cinematografica, avrei voluto pensarlo io Reality. Avrei voluto avere io l’acutezza di partorire una meta riflessione di celluloide sullo “shock da Grande Fratello”. Si, perché la mancata partecipazione al Re dei reality ha dato vita ad una sindrome depressiva, tema e sfondo, a mio modestissimo parere, di uno dei più bei film della storia del cinema italiano.