Di ritorno dalla visione di Reality, la nuova fatica cinematografica di Matteo Garrone, non
posso non porgere l’invito a recarsi al cinema. Non resterà un consiglio, diventerà
un obbligo dopo aver letto queste quattro righe. Consiglierei la visione soprattutto
ad una particolare categoria di soggetti, gli ammalati o potenziali tali di
popolarità. Sì, perché Reality è un’ottima
terapia d’urto per coloro i quali sono convinti che per realizzarsi nella vita è
necessario farsi vedere in mutande in tv, possibilmente su reti nazionali, per
almeno quattro - cinque mesi, sperando di varcare la porta rossa per ultimi o
di conquistarsi un amore da copertina con una corteggiatrice tv. Un film obbligatorio
per questi soggetti, salutare per tutti coloro che hanno due ore da passare
seduti in poltrona, davanti allo
schermo.
Garrone inquadra la storia
di un pescivendolo di provincia, Luciano. Luciano vive nella città dai primati
negativi, sempre al primo posto nelle
peggiori classifiche del mondo: Napoli.
Ha una moglie, tre figli e una barca di parenti con cui, come nel più
classico dei cliché legati alla
meridionalità, si sposta costantemente insieme: al mare, in casa, alle feste
comandate, in piscina di domenica pomeriggio. Non ha una grande istruzione e il
suo unico strumento per conoscere la vita, insieme alle truffe che imbastisce
con la moglie, è il tubo catodico. Si capisce che la tv ha forgiato le menti, i
desideri e i sogni dei protagonisti di questa storia: Luciano e la sua famiglia
confondono la realtà con la finzione; finiscono per passare la giornata
attaccati al cellulare, aspettando che arrivi la fatidica chiamata: non più
quella del Signore ma quella del Grande Fratello. Sì, perché, agli occhi di
questa gente, il Grande Fratello è sinonimo di “sistemazione”, di “affermazione”,
di “popolarità”: è l’unico mezzo per
mettere fine ad una vita di stenti e di
preoccupazioni. Luciano si presenta ai provini, pressato dai figli, da bambini
che supplicano il padre di sostenere il colloquio per entrare nella casa più
spiata d’Italia, con capricci e ricatti infantili prima riservati esclusivamente
a caramelle e giocattoli. Il Big Brother
è diventato uno stile di vita, per grandi e piccini e lo capisci dall’insistenza
con cui Garrone punta la macchina da presa sulla bambina che strilla, attaccata
alla sottana di mammà, sperando che
il padre acconsenta a sostenere il provino. Passano le ore, passano i giorni ma
quella chiamata non arriva. Luciano vende tutto, vende la pescheria “perché con
quei soldi potremo ristrutturare casa. Non sia mai che ti vengono a fare un’intervista
in quello schifo. Che facciamo la figura dei pezzenti?”. Il programma comincia
ma lui non perde le speranze e s’ammattisce nell’attesa di quella convocazione
che mai arriverà. Da qui comincia il Grande Fratello del nostro protagonista,
convinto che i responsabili del programma lo controllino segretamente per
valutarne le capacità. Si convince che deve mostrarsi per quel che non è,
finendo per regalare alla gente di strada la sua casa pezzo dopo pezzo e a
nascondersi dagli sguardi della gente per la vergogna di una mancata partecipazione
televisiva. Il finale, un po’ scontato, riesce comunque a fornire la chiave interpretativa
del film. E' un buon palliativo psicologico Reality che, attraverso il racconto di
una storia, spalma sullo schermo l’azione sobillatrice di più di un decennio di
produzione spazzatura, talmente tanto incorporata nelle nostre abitudini da
averne forgiato anche le menti. Reality
è un film in cui, per una volta, sorridere ti pesa. Reality
è un film nel quale gli stereotipi del meridionali panzuti, fracassoni e
perennemente in cucina a friggere l’impossibile sono solo lo sfondo di un’altra
storia. I napoletani di Garrone, per una volta, hanno altri problemi: la
famiglia è l’incubatrice di speranze vuote e vane, sempre pronta ad accoglierti
a diventare parte di un fun club cittadino
pronto a sostenerti non per la corsa al Nobel ma per la conquista di un
pacchetto di comparsate in discoteca.
Reality è un film esteticamente
meraviglioso, di cui ti innamori già dal piano-sequenza iniziale, da manuale del
cinema. I luoghi e le scenografie non sono niente senza le luci e la regia di
uno dei migliori Garrone di sempre. Uscita dalla sala cinematografica, avrei voluto
pensarlo io Reality. Avrei voluto
avere io l’acutezza di partorire una meta riflessione di celluloide sullo “shock
da Grande Fratello”. Si, perché la mancata partecipazione al Re dei reality ha
dato vita ad una sindrome depressiva, tema e sfondo, a mio modestissimo parere,
di uno dei più bei film della storia del cinema italiano.