giovedì 4 ottobre 2012

Reality: un film – terapia


Di ritorno dalla visione di Reality, la nuova fatica cinematografica di Matteo Garrone, non posso non porgere l’invito a recarsi al cinema. Non resterà un consiglio, diventerà un obbligo dopo aver letto queste quattro righe. Consiglierei la visione soprattutto ad una particolare categoria di soggetti, gli ammalati o potenziali tali di popolarità. Sì, perché Reality è un’ottima terapia d’urto per coloro i quali sono convinti che per realizzarsi nella vita è necessario farsi vedere in mutande in tv, possibilmente su reti nazionali, per almeno quattro - cinque mesi, sperando di varcare la porta rossa per ultimi o di conquistarsi un amore da copertina con una corteggiatrice tv. Un film obbligatorio per questi soggetti, salutare per tutti coloro che hanno due ore da passare seduti in poltrona, davanti  allo schermo.
 Garrone inquadra la storia di un pescivendolo di provincia, Luciano. Luciano vive nella città dai primati negativi,  sempre al primo posto nelle peggiori classifiche del mondo: Napoli.  Ha una moglie, tre figli e una barca di parenti con cui, come nel più classico dei cliché legati alla meridionalità, si sposta costantemente insieme: al mare, in casa, alle feste comandate, in piscina di domenica pomeriggio. Non ha una grande istruzione e il suo unico strumento per conoscere la vita, insieme alle truffe che imbastisce con la moglie, è il tubo catodico. Si capisce che la tv ha forgiato le menti, i desideri e i sogni dei protagonisti di questa storia: Luciano e la sua famiglia confondono la realtà con la finzione; finiscono per passare la giornata attaccati al cellulare, aspettando che arrivi la fatidica chiamata: non più quella del Signore ma quella del Grande Fratello. Sì, perché, agli occhi di questa gente, il Grande Fratello è sinonimo di “sistemazione”, di “affermazione”, di “popolarità”: è l’unico  mezzo per mettere fine ad una vita di stenti  e di preoccupazioni. Luciano si presenta ai provini, pressato dai figli, da bambini che supplicano il padre di sostenere il colloquio per entrare nella casa più spiata d’Italia, con capricci e ricatti infantili prima riservati esclusivamente a caramelle e giocattoli. Il Big Brother è diventato uno stile di vita, per grandi e piccini e lo capisci dall’insistenza con cui Garrone punta la macchina da presa sulla bambina che strilla, attaccata alla sottana di mammà, sperando che il padre acconsenta a sostenere il provino. Passano le ore, passano i giorni ma quella chiamata non arriva. Luciano vende tutto, vende la pescheria “perché con quei soldi potremo ristrutturare casa. Non sia mai che ti vengono a fare un’intervista in quello schifo. Che facciamo la figura dei pezzenti?”. Il programma comincia ma lui non perde le speranze e s’ammattisce nell’attesa di quella convocazione che mai arriverà. Da qui comincia il Grande Fratello del nostro protagonista, convinto che i responsabili del programma lo controllino segretamente per valutarne le capacità. Si convince che deve mostrarsi per quel che non è, finendo per regalare alla gente di strada la sua casa pezzo dopo pezzo e a nascondersi dagli sguardi della gente per la vergogna di una mancata partecipazione televisiva. Il finale, un po’ scontato, riesce comunque a fornire la chiave interpretativa del film. E' un buon palliativo psicologico Reality che, attraverso il racconto di una storia, spalma sullo schermo l’azione sobillatrice di più di un decennio di produzione spazzatura, talmente tanto incorporata nelle nostre abitudini da averne forgiato anche le menti. Reality è un film in cui, per una volta, sorridere ti pesa. Reality è un film nel quale gli stereotipi del meridionali panzuti, fracassoni e perennemente in cucina a friggere l’impossibile sono solo lo sfondo di un’altra storia. I napoletani di Garrone, per una volta, hanno altri problemi: la famiglia è l’incubatrice di speranze vuote e vane, sempre pronta ad accoglierti a diventare parte di un fun club cittadino pronto a sostenerti non per la corsa al Nobel ma per la conquista di un pacchetto di comparsate in discoteca.
Reality è un film esteticamente meraviglioso, di cui ti innamori già dal piano-sequenza iniziale, da manuale del cinema. I luoghi e le scenografie non sono niente senza le luci e la regia di uno dei migliori Garrone di sempre. Uscita dalla sala cinematografica, avrei voluto pensarlo io Reality. Avrei voluto avere io l’acutezza di partorire una meta riflessione di celluloide sullo “shock da Grande Fratello”. Si, perché la mancata partecipazione al Re dei reality ha dato vita ad una sindrome depressiva, tema e sfondo, a mio modestissimo parere, di uno dei più bei film della storia del cinema italiano.

sabato 9 giugno 2012

Assenza ed assenti: uno stile di vita.



È l’una di notte. Dormire? Non ne parliamo nemmeno: terremoto, purtroppo, non è una parola che fa rima con il verbo dormire o qualsiasi altra locuzione presente nel paradigma del sonno.
Sono giorni che tento di farmi venire in mente un soggetto intelligente su cui scrivere. E sono giorni che niente soddisfa la mia vena da scrittrice sfigatella e alle prime armi. Potrei scrivere della mia nevrosi da universitaria, potrei scrivere della mia insoddisfazione da ventitreenne, potrei scrivere dei pensieri insulsi che mi passano per la testa, potrei scrivere della mia strana ossessione a studiare e osservare per ore le persone che mi passano accanto. Potrei scrivere della paura di perdere o sbagliare treno, della dose quotidiana di imbranataggine e goffaggine che mi porto nella borsa. Potrei scrivere di guerra e pace, di onesti e disonesti, ragionare sui massimi sistemi, parlare dell’aumento della benzina, della nuova IMU.
E, invece, mi va di scrivere dell’assenza e degli assenti.
L’assenza è una condizione molto più ricorrente di quanto si possa mai immaginare. 
La avverti maggiormente se la fonte è qualcuno che hai conosciuto  ed ora non c’è più. Te la senti addosso quando hai litigato con qualcuno e pensavi di bastare a te stessa.  La porti con te, quando ti sei lasciata a casa, quando, con le cuffie alle orecchie, immagini come sarebbe il mondo in tua assenza: qualcuno l’avvertirebbe mai la tua assenza?  Così si dimostra che l’assenza è molto più presente nelle nostre vite di quanto sembri. È molto più presente in quanto è tangibile, visibile, inascoltabile. L’assenza va a braccetto con un’altra condizione, il silenzio. Un silenzio molto più rumoroso del caos di qualsiasi capitale alle otto del mattino. 
E’ così, in compagnia del  mio silenzio, che percorro, spesso, i tragitti da somarello delle strade cittadine; pensando all’assenza e agli assenti in un silenzio che si scontra con il rumore assordante del clacson che m’avverte quando, intontita, attraverso le strisce pedonali con il semaforo per i pedoni rosso da una vita, che anche un non vedente se ne sarebbe accorto. Intanto, salva da un potenziale investimento, riportata alla realtà dagli insulti dell’autista, con nonchalance proseguo il cammino. Comincio a fare i conti degli assenti della mia vita. Uno, due, tre... sono molti! C’è chi è stato espulso, ed anche con sommo piacere. C’è chi è andato via spontaneamente, coloro che hai perso per strada, quelli con cui hai un rapporto ad intermittenza, quelli che, tutto sommato, stai bene anche senza. E, ti rendi conto, che nelle assenze degli assenti ci sguazzi abbastanza bene. L’assenza è una colpa tua. Colpa tua che non metti radici, che viaggi, perché per te niente è mai abbastanza. Colpa tua, che non  dai tempo ai rapporti di terminare la cottura: ti piacciono abbastanza al dente, le conoscenze. Non è così da una vita: è la storia della tua vita. Ho una repulsione nei confronti delle certezze e della staticità, del camino in casa e delle pantofole consumate. È un bene? Forse sì, forse no. Ciò che è sicuro, però, è che tutto ciò mi impedisce di instaurare relazioni stabili e con un minimo di speranza di vita.  Abortiscono tutte al primo giro di boa. E puntualmente ritornano le assenze e gli assenti.

E resti di nuovo da sola?

No. Sei già pronta per altre presenze e preparata a goderti la loro trasformazione in tante, diverse e sorprendenti assenze.

domenica 6 maggio 2012

Avessi avuto un credo, almeno sarei morta da illusa.


Stanotte, il salotto buono di Piazza Maggiore è stato la culla di una profonda discussione, di una di quelle ormai rare e sempre più povere occasioni a sfondo culturale a cui vorresti tanto partecipare ma a cui spesso la visione dell’ultima puntata dell’Isola dei Famosi ti impedisce di aderire. Appena ti risvegli, in una incerta domenica di maggio, nasce l’esigenza di farne un post, e di approfondire spunti e barlumi di idee che, data l’ora tarda o l’alcool, non sei riuscita ad esporre.
Si, perché, ai più, potrà sembrare assurdo ma, per me, la profondità d’animo, l’intelligenza, il mettersi in discussione sono ancora un valore aggiunto. E tutto ciò si è materializzato in un sabato bolognese, nel classico scontro tra menti eccelse, votate al sacro vincolo delle scienze dure, e poveri, incerti e illusi umanisti (con ogni probabilità, futuri precari più dei compari scienziati) che credono nella forza del pensiero e nell’incertezza delle lettere.
Poi ci sei tu, che di certezze non ne hai manco mezza e che ti maledici  perché la letteratura latina al liceo e l’attimo fuggente in tv hanno plasmato la tua mente a tal punto da portarti a mettere in discussione ogni minuto della tua vita la tua persona, i tuoi ideali, le tue convinzioni. E un po’ li invidi i tuoi amici che, giusta o sbagliata che sia, una certezza nella vita credono di averla, vi sono saldamente aggrappati e non la mollerebbero per nulla al mondo. Forse pensi che fare del relativismo un credo non serva poi tanto a ventitré anni, che, con una frase fatta, faresti meglio a vivere la vita “con più leggerezza”. Ci provi, così come proveresti un gusto assurdo sul cono gelato, ma ti accorgi che, in fondo, la “pesantezza” a cui eri abituata non ti pesa così tanto e forse ti manca pure un po’ . E, se non sei credente, non puoi nemmeno illuderti di interpretare questo peso come un dono divino,  un regalo che manderesti volentieri indietro se almeno conoscessi il mittente. Frattanto continui a tediare te stessa, senza trovare una soluzione. E’ un labirinto senza uscita quello in cui ti sei cacciata in questa vita. E, posto che, non essendo religiosa, credi fermamente di avere sola questa, non ti resta che accettare che sei rimasta fregata e che la leggerezza non potrà mai essere il paradigma della tua vita.  Andare controcorrente serve a chi? A te? A che prezzo? Ne vale la pena? Ogni tanto penso, farebbe bene anche una capatina dallo psicologo, o almeno questo mi consiglierebbero in molti. Ma io credo in un esercizio diverso, molto meno ortodosso ma più medicamentoso: la scrittura. Niccolò Ammaniti sostiene che scrivere è come andare in bicicletta: più ti eserciti, più cadi e ti sbucci le ginocchia, prima e meglio impari. Scrivere per me è anche questo. Ma è in primo luogo un atto egoistico, una liberazione dalla gabbia in cui la mia timidezza e la mia apparente freddezza mi tengono costretta e non  permettono di farmi conoscere per quella che sono, pazza o normale, idealista o realista, vecchia a vent’anni o saggia fra gli sprovveduti. E’ questione di punti di vista, ma io, intanto, coltivo il mio. Lo coltivo perché è l’unico momento della mia esistenza in cui non mi sento a disagio,  lo coltivo perché voglio dire quello che penso senza fraintendimenti, lo coltivo perché non sono tanto brava a parlare, e ho talmente tanti pensieri da esternare che questi si accavallano e mi mandano in confusione. Questo è il precetto, in sostanza, che mi permette di fare di un sabato sera un’occasione di riflessione, perché ritengo  che ogni momento vissuto è un’occasione utile a rendere sempre più gravoso il peso che mi porto dentro e forse anche a convincermi che non ne vale la pena.
Ps: la partita fra pseudo scienziati e umanisti squattrinati si è conclusa con un pareggio e una stretta di mano. Sarebbe potuta arrivare ai rigori, ma s’era fatto troppo tardi; il custode doveva chiudere e c’ha cacciato.  Cronaca di un incontro che poteva finire male.

venerdì 27 aprile 2012

Non lavate questo sangue: Diaz




Scrivere una recensione dopo aver visto Diaz – Don't clean up this blood, è come fare una seduta di autoanalisi: non serve tanto agli altri quanto a te: a capire quanto ti resta del film, quanto hai sofferto, quanto soffrirai.
Critici e amatori hanno recensito il lavoro di Daniele Vicari; tutti, superficialmente o con cognizione, hanno espresso il proprio giudizio, forse credendo di darsi così un tono elitario, forse semplicemente per dare testimonianza del proprio impegno. Io mi sento troppo umana, non sarei in grado di fare un'operazione simile. Ho meditato un’intera giornata prima di scrivere queste quattro righe; ero e sono troppo confusa per decidere da che parte stare, per sentenziare e dire che il film avrebbe potuto fare di meglio.
Quando esci dalla sala (consiglio la visione al cinema, né quella pirata né in DVD), sei frastornato, attonito, confuso. Per la prima volta non sai dove allocare il torto e la ragione; vai nel panico, perché non sai riconoscere quale è il confine tra la cattiveria e la buona condotta, dove sta e se c'è. Per la prima volta, non riesci a categorizzare un'emozione. La percezione che hai a che fare con qualcosa più grande di te, ti è ben chiara sin dall'inizio, quando vieni catapultato nel frastuono di quei giorni, assoggettato agli stessi flash d'agenzia che all’epoca ci avevano informato della morte di Carlo Giuliani. Solo alla fine, capisci che, forse, il filtro mediale è stato l'unico a permetterti di farti un'opinione sulla vicenda e che, forse, una verità non è sempre la verità. Vicari non ti dice da che parte stare, non ti suggerisce nulla, lascia che gli eventi scorrano, che il montaggio parli, che la realtà venga fuori da sola. E' il primo film in cui, sono convinta, valgano tanto i dialoghi, le battute quanto i gesti, gli sguardi, i silenzi.
Il grande merito di questa opera è quello di lasciarti in un silenzio di frastuoni, di permettere, che alla fine del film, una fila ordinata e silenziosa lasci la sala con un comportamento che attribuiremmo al più ordinato dei popoli, gli svizzeri.
Molti hanno parlato di Diaz ed hanno dimenticato il “Don't clean up this Blood”. A mio modesto parere, la chiave interpretativa del film è questa semplice e apparentemente innocua esortazione. Essa vale più delle ore di educazione civica alle medie, più degli insegnamenti dei tuoi nonni, più delle leggi del codice civile, più delle parole del presidente della Repubblica, perché hanno una forza che tutte le altre cose non hanno: queste parole, rafforzate dalla cruenza delle immagini, ti fanno sobbalzare dalla sedia, portano involontariamente le tue mani a coprire lo sguardo per non vedere (come la mia antipaticissima vicina di poltrona), ti entrano dentro, ti spaccano lo stomaco, ti rendono inabile alla parola, ti fanno sperare che il regista abbia avuto il “buon senso” di staccare l'inquadratura e di dare inizio ad un'altra sequenza. La sequenza, al contrario, non si interrompe:  i fatti della Diaz e di Bolzaneto si susseguono sullo schermo con una rapidità e una ferocia mai viste prima. Forse, fra te e te, ti dici anche che le parole di Amnesty International, che ha definito gli episodi di violenza al G8 di Genova come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” sono troppo leggere, troppo poche per descrivere quello che sullo schermo appare come un casino volontariamente mal gestito.
C'è un inno alla civiltà nel film di Vicari. Un inno a condannare l'indifferenza (vedi Santamaria nei panni di Max Flamini, capo del 7° nucleo) tanto quanto la violenza. Un avvertimento: dimenticare non serve; serve ricordare, anche con dolore. Per capire. Per ricordarci che sappiamo essere animali tanto quanto lo sono quelli per definizione.
Lontano da una presa netta di posizione, veicolata dalla condivisione di un determinato bagaglio ideologico, Diaz – Don't Clean up this Blood, spaventa perché racconta meglio di altri sistemi la verità. E' sempre un film, certo. Ma è un film, che non potendo farsi telecamera della realtà, la intervalla (filmati originali) con ricostruzioni evidentissime e funzionali all'economia del film. Diaz è anche un riparo alle tante occasioni perse, a quella convinzione tutta italiana che se “parteggi per una parte” allora sei fazioso. Come se la verità non potesse assumere una forma, come se la responsabilità oggettiva non esistesse. Allora, per convincerti, cominci a inferire che i poliziotti hanno avuto quel comportamento perché la pressione mediatica era insopportabile, perché c'erano anche i black block, perché, forse, è stato commesso un errore di valutazione. Giustificarsi e auto-giustificarsi non ha senso. Cercare la fonte delle responsabilità, spesso, ne ha ugualmente poco.  Restano i fatti: 93 attivisti sottoposti a fermo di polizia, 61 feriti, 125 poliziotti indagati, un iter processuale al momento fermo in Cassazione.

Diaz è un film da vedere e da soffrire. Un testo che ci fa fare i conti con la nostra storia recente, che, tutto sommato, ci dice che poco abbiamo imparato dagli orrori del passato (orrori non  un errore di battitura).  E’ anche un’occasione per rendersi conto che fare film di qualità, oggi, è possibile. Basta la volontà e, talvolta, il coraggio di assumersi il rischio. Diaz è anche l’esempio dell’impegno e del lavoro: Vicari ha impiegato tre anni per scrivere il soggetto del film e diversi mesi per la realizzazione. Bisogna sottolineare, infatti, che al di là del tema del film, grande spazio dovrebbe essere riservato all’opera in quanto prodotto cinematografico. Funziona la scelta dell’intreccio narrativo, con un movimento allo stesso tempo corale ed individuale, in cui, con una serie di flashback, vengono raccontate le storie dei singoli personaggi, tutti attivi su uno sfondo comune: quella maledetta notte alla Diaz. Punte d’eccezione, in un cast internazionale, il “nonno di tutti” Renato Scarpa e l’attrice tedesca Jennifer Ulrich.
Solo due appunti: non sempre gli effetti speciali conferiscono un maggiore effetto di realtà al prodotto. In questo caso, la loro presenza è assolutamente superflua.
Cosa più importante:una sentenza esiste, così come esistono gli atti processuali: sarebbe stato rischioso ma apprezzabile dare ai personaggi le sembianze e i nomi degli effettivi responsabili di quella scampata mattanza, non limitarsi alle iniziali: ne hanno bisogno i ragazzi e i poliziotti della Diaz.



mercoledì 18 aprile 2012

Se il suicido è un semaforo pericoloso del nostro tempo: come i media aggirano il problema.




E' di ieri un bellissimo articolo di Repubblica, che riporta la storia di una mamma e del suo accorato appello ai giovani "ad andare via dall'Italia, purchè non facciano la stessa fine di sua figlia". La signora, in una lettera al quotidiano della Calabria, ha voluto raccontare la verità sulla morte di sua figlia, morta suicida il 4 Aprile scorso buttandosi dal balcone di casa. Non ci sta sua madre a sentirsi dire che la figlia era affetta dalla depressione. Non vuole auto-convincersi che la figlia sia morta senza un perchè, in preda ad una condizione irrazionale e involontaria come quella della depressione, fenomeno che richiederebbe un approccio molto più complesso di quello che siamo soliti riservargli, al quale bisognerebbe accostarsi con molto più rispetto e con meno pressappochismo. La figlia ha scelto di morire, e le motivazioni della sua morte interessano tutti noi. E' la struttura del sistema socio-culturale e storico italiano la fonte di tutti i mali, anche di quelli di questa ragazza di ventotto anni. Questa morte non è immotivata, questa morte non è casuale. Essa si inserisce in una scia di morti per suicidio, di cui la stampa e i media in generale  si sono affrettati ad occuparsi, senza usare, tranne che in questa occasione, il rispetto e la delicatezza giustamente dovuti. Ci si chiede perché si ricorra a questo gesto estremo, perché quando tutto e tutti ci dicono che siamo nella fase discendente della ormai nota crisi economica? Parliamo di storie normali, parliamo di noi. Dovremmo parlare di una ragazza, di una mamma, di una neolaureata eccellente, di una donna con potenzialità illimitate. Possiamo solo parlare di una ragazza morta a ventotto anni, perché incapace di immaginarsi un futuro, alle prese con la consapevolezza che i principi di meritocrazia e di lealtà a cui si è ispirata tutta la sua azione avrebbe fatto meglio a scambiarli con un compromesso.
Di che grado di civiltà è dotata una comunità che non si cura del benessere del singolo, che lo lascia morire, che finge di non vedere, che non tenta di arginare, che non vuole o non può? Dove è finita la pietas, che tutto dovrebbe muovere e tutto sostenere? In quale ambito si colloca l'utilizzo dei media? Quale ruolo essi potrebbero avere in un processo di ri-moralizzazione della società e di re-investimento etico? Pare che, ad una semplice osservazione del modo in cui i media hanno trattato in queste settimane le molteplici notizie di suicidio, essi non prestino particolare attenzione alla problematica, limitandosi a fornire la notizia e a liquidarne le ragioni, facendole coincidere con le difficoltà causate dalla crisi generale. Ho sentito parlare raramente di precarietà dell'anima, ho sentito parlare altrettanto poco della persona, molto della personalità. Mi rifiuto di pensare che un grande dramma umano possa essere discusso alle cinque di pomeriggio, in un salotto televisivo, da opinionisti che tutto sanno e nulla conoscono. Mi rifiuto di credere che questa sia l'unica modalità di cui i media possono avvalersi per trattare la questione. Mi rifiuto di credere che non si possa fare di meglio. Se, come diceva Pasolini, "le parole che vengono dalla televisione cadono sempre dall'alto, anche le più vere", mi chiedo, in nome di quale qualità e profondità discorsiva questa gente critichi e sentenzi sulle vite degli altri? Quanta e quale percezione del problema abbia. Conosce i loro nomi? Si finisce così per trattare le vite degli altri solo come casi di cronaca, dimenticandosi che quelle donne e quegli uomini hanno un nome, una storia, dei legami, delle speranze. Tutto distrutto e disatteso, da quello stesso mondo e dalla stessa comunità che magari le migliaia di opinionisti, padroni, e prima ancora individui hanno contribuito a plasmare. Si finisce così per scivolare nel baratro dell'elencazione, pescando a caso, una tantum, per far finta di ricordare, per fare in modo "che ciò non accada più". La finta vicinanza  è forse peggiore di una palese lontananza. Certo, retorico e moralista questo discorso, magari una cantilena. Magari, chissà, forse repetita iuvant davvero stavolta. Magari, spero, la prossima volta, che qualsiasi ragazza ci penserà due volte prima di tapparsi le ali da sola. Magari, in una prossima vita, i media sapranno anche essere solidali. O forse non è il loro compito?


L'articolo de La Repubblica,di seguito:
http://www.repubblica.it/cronaca/2012/04/17/news/la_madre_di_una_laureata_credeva_nel_merito_e_stata_delusa_e_si_uccisa_la_colpa_di_tutti_noi-33446663/

lunedì 16 aprile 2012

La primavera del cinema civile



E' tornata la primavera, e con essa, come al solito, le speranze di miglioramento e rifioritura. Fa piacere notare, che questo vento di cambiamento investe anche il cinema italiano, da tempo appiattito dagli stereotipi del cinepanettone e della commedia leggera. In meno di un mese infatti, nelle sale cinematografiche si sono alternati tre prodotti interessanti, che hanno immediatamente spinto la critica cinematografica a parlare di ritorno del "cinema civile". ACAB, Romanzo di una Strage e Diaz-Don't clean up this Blood, hanno portato in sala chi da tempo aveva perso l'abitudine di andarvi, chi c'era e chi no al tempo delle vicende narrate, chi al cinema non c'era mai stato. In molte recensioni si è voluto far coincidere queste epifania del cinema civile con un cambiamento culturale, innescato da alcuni fattori tra cui la crisi economica, l'avvicendamento al governo e il tanto famoso "invito alla sobrietà montiano", che avrebbe radicalmente mutato comportamenti e abitudini nei costumi della società italiana. Non credo che il cambiamento culturale si manifesti da un giorno all'altro; non penso che l'incorporamento di abitudini consolidate venga abbandonato immediatamente e senza giusta causa, così, perché l'ha detto il governo. Il racconto dei fatti di Milano, del G8 di Genova e dell'interesse per il lavoro dei celerini sono il risultato e l'emblema di un bisogno di conoscenza, di una sete di informazioni, causate da una rivoluzione culturale cominciata già anni addietro. Li ho visti i ragazzi fare la fila a Perugia, durante il Festival del Giornalismo, per ascoltare e riflettere sulle parole di Milena Gabanelli, di Al Gore, di Roberto Saviano. Ho visto l'affollamento delle aule universitarie per discutere di mafie. Leggo i centinaia di blog in cui, a modo proprio, persone dalle estrazioni sociali più disparate esprimono il proprio pensiero, concordano o si dissociano da  qualsiasi evento, da qualsiasi opposizione. Ci sono persone e progetti dietro questa rinascita culturale, schemi e fisionomie che hanno nome e cognome, e magari anche orientamento politico. Tutte sostanze, però, che non vengono fatte trasparire in lavori che concedono allo spettatore di farsi la sua opinione, non di prenderla in prestito. Non è un caso, credo, che a sostenere questi validi progetti siano quasi sempre le stesse case di produzione (Cattleya e Fandango). Che gli uomini giusti stiano al posto sbagliato? Largo agli intellettuali, largo alle belle lettere.
http://www.youtube.com/watch?v=XSXy30lqvtw
http://www.youtube.com/watch?v=SIDBMbNMdnM
http://www.youtube.com/watch?v=zkFueLX_bMg