venerdì 27 aprile 2012

Non lavate questo sangue: Diaz




Scrivere una recensione dopo aver visto Diaz – Don't clean up this blood, è come fare una seduta di autoanalisi: non serve tanto agli altri quanto a te: a capire quanto ti resta del film, quanto hai sofferto, quanto soffrirai.
Critici e amatori hanno recensito il lavoro di Daniele Vicari; tutti, superficialmente o con cognizione, hanno espresso il proprio giudizio, forse credendo di darsi così un tono elitario, forse semplicemente per dare testimonianza del proprio impegno. Io mi sento troppo umana, non sarei in grado di fare un'operazione simile. Ho meditato un’intera giornata prima di scrivere queste quattro righe; ero e sono troppo confusa per decidere da che parte stare, per sentenziare e dire che il film avrebbe potuto fare di meglio.
Quando esci dalla sala (consiglio la visione al cinema, né quella pirata né in DVD), sei frastornato, attonito, confuso. Per la prima volta non sai dove allocare il torto e la ragione; vai nel panico, perché non sai riconoscere quale è il confine tra la cattiveria e la buona condotta, dove sta e se c'è. Per la prima volta, non riesci a categorizzare un'emozione. La percezione che hai a che fare con qualcosa più grande di te, ti è ben chiara sin dall'inizio, quando vieni catapultato nel frastuono di quei giorni, assoggettato agli stessi flash d'agenzia che all’epoca ci avevano informato della morte di Carlo Giuliani. Solo alla fine, capisci che, forse, il filtro mediale è stato l'unico a permetterti di farti un'opinione sulla vicenda e che, forse, una verità non è sempre la verità. Vicari non ti dice da che parte stare, non ti suggerisce nulla, lascia che gli eventi scorrano, che il montaggio parli, che la realtà venga fuori da sola. E' il primo film in cui, sono convinta, valgano tanto i dialoghi, le battute quanto i gesti, gli sguardi, i silenzi.
Il grande merito di questa opera è quello di lasciarti in un silenzio di frastuoni, di permettere, che alla fine del film, una fila ordinata e silenziosa lasci la sala con un comportamento che attribuiremmo al più ordinato dei popoli, gli svizzeri.
Molti hanno parlato di Diaz ed hanno dimenticato il “Don't clean up this Blood”. A mio modesto parere, la chiave interpretativa del film è questa semplice e apparentemente innocua esortazione. Essa vale più delle ore di educazione civica alle medie, più degli insegnamenti dei tuoi nonni, più delle leggi del codice civile, più delle parole del presidente della Repubblica, perché hanno una forza che tutte le altre cose non hanno: queste parole, rafforzate dalla cruenza delle immagini, ti fanno sobbalzare dalla sedia, portano involontariamente le tue mani a coprire lo sguardo per non vedere (come la mia antipaticissima vicina di poltrona), ti entrano dentro, ti spaccano lo stomaco, ti rendono inabile alla parola, ti fanno sperare che il regista abbia avuto il “buon senso” di staccare l'inquadratura e di dare inizio ad un'altra sequenza. La sequenza, al contrario, non si interrompe:  i fatti della Diaz e di Bolzaneto si susseguono sullo schermo con una rapidità e una ferocia mai viste prima. Forse, fra te e te, ti dici anche che le parole di Amnesty International, che ha definito gli episodi di violenza al G8 di Genova come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” sono troppo leggere, troppo poche per descrivere quello che sullo schermo appare come un casino volontariamente mal gestito.
C'è un inno alla civiltà nel film di Vicari. Un inno a condannare l'indifferenza (vedi Santamaria nei panni di Max Flamini, capo del 7° nucleo) tanto quanto la violenza. Un avvertimento: dimenticare non serve; serve ricordare, anche con dolore. Per capire. Per ricordarci che sappiamo essere animali tanto quanto lo sono quelli per definizione.
Lontano da una presa netta di posizione, veicolata dalla condivisione di un determinato bagaglio ideologico, Diaz – Don't Clean up this Blood, spaventa perché racconta meglio di altri sistemi la verità. E' sempre un film, certo. Ma è un film, che non potendo farsi telecamera della realtà, la intervalla (filmati originali) con ricostruzioni evidentissime e funzionali all'economia del film. Diaz è anche un riparo alle tante occasioni perse, a quella convinzione tutta italiana che se “parteggi per una parte” allora sei fazioso. Come se la verità non potesse assumere una forma, come se la responsabilità oggettiva non esistesse. Allora, per convincerti, cominci a inferire che i poliziotti hanno avuto quel comportamento perché la pressione mediatica era insopportabile, perché c'erano anche i black block, perché, forse, è stato commesso un errore di valutazione. Giustificarsi e auto-giustificarsi non ha senso. Cercare la fonte delle responsabilità, spesso, ne ha ugualmente poco.  Restano i fatti: 93 attivisti sottoposti a fermo di polizia, 61 feriti, 125 poliziotti indagati, un iter processuale al momento fermo in Cassazione.

Diaz è un film da vedere e da soffrire. Un testo che ci fa fare i conti con la nostra storia recente, che, tutto sommato, ci dice che poco abbiamo imparato dagli orrori del passato (orrori non  un errore di battitura).  E’ anche un’occasione per rendersi conto che fare film di qualità, oggi, è possibile. Basta la volontà e, talvolta, il coraggio di assumersi il rischio. Diaz è anche l’esempio dell’impegno e del lavoro: Vicari ha impiegato tre anni per scrivere il soggetto del film e diversi mesi per la realizzazione. Bisogna sottolineare, infatti, che al di là del tema del film, grande spazio dovrebbe essere riservato all’opera in quanto prodotto cinematografico. Funziona la scelta dell’intreccio narrativo, con un movimento allo stesso tempo corale ed individuale, in cui, con una serie di flashback, vengono raccontate le storie dei singoli personaggi, tutti attivi su uno sfondo comune: quella maledetta notte alla Diaz. Punte d’eccezione, in un cast internazionale, il “nonno di tutti” Renato Scarpa e l’attrice tedesca Jennifer Ulrich.
Solo due appunti: non sempre gli effetti speciali conferiscono un maggiore effetto di realtà al prodotto. In questo caso, la loro presenza è assolutamente superflua.
Cosa più importante:una sentenza esiste, così come esistono gli atti processuali: sarebbe stato rischioso ma apprezzabile dare ai personaggi le sembianze e i nomi degli effettivi responsabili di quella scampata mattanza, non limitarsi alle iniziali: ne hanno bisogno i ragazzi e i poliziotti della Diaz.



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