Scrivere una
recensione dopo aver visto Diaz – Don't clean up this blood, è come fare
una seduta di autoanalisi: non serve tanto agli altri quanto a te: a capire
quanto ti resta del film, quanto hai sofferto, quanto soffrirai.
Critici e
amatori hanno recensito il lavoro di Daniele Vicari; tutti, superficialmente o
con cognizione, hanno espresso il proprio giudizio, forse credendo di darsi
così un tono elitario, forse semplicemente per dare testimonianza del proprio
impegno. Io mi sento troppo umana, non sarei in grado di fare un'operazione
simile. Ho meditato un’intera
giornata prima di scrivere queste quattro righe; ero e sono troppo confusa per
decidere da che parte stare, per sentenziare e dire che il film avrebbe potuto
fare di meglio.
Quando esci
dalla sala (consiglio la visione al cinema, né quella pirata né in DVD), sei
frastornato, attonito, confuso. Per la prima volta non sai dove allocare il
torto e la ragione; vai nel panico, perché non sai riconoscere quale è il
confine tra la cattiveria e la buona condotta, dove sta e se c'è. Per la prima
volta, non riesci a categorizzare un'emozione. La percezione che hai a che fare
con qualcosa più grande di te, ti è ben chiara sin dall'inizio, quando vieni
catapultato nel frastuono di quei giorni, assoggettato agli stessi flash
d'agenzia che all’epoca ci avevano informato della morte di Carlo Giuliani. Solo
alla fine, capisci che, forse, il filtro mediale è stato l'unico a permetterti
di farti un'opinione sulla vicenda e che, forse, una verità non è sempre la
verità. Vicari non ti dice da che parte stare, non ti suggerisce nulla, lascia
che gli eventi scorrano, che il montaggio parli, che la realtà venga fuori da
sola. E' il primo film in cui, sono convinta, valgano tanto i dialoghi, le
battute quanto i gesti, gli sguardi, i silenzi.
Il grande
merito di questa opera è quello di lasciarti in un silenzio di frastuoni, di
permettere, che alla fine del film, una fila ordinata e silenziosa lasci la
sala con un comportamento che attribuiremmo al più ordinato dei popoli, gli
svizzeri.
Molti hanno
parlato di Diaz ed hanno dimenticato
il “Don't clean up this Blood”. A mio
modesto parere, la chiave interpretativa del film è questa semplice e
apparentemente innocua esortazione. Essa vale più delle ore di educazione
civica alle medie, più degli insegnamenti dei tuoi nonni, più delle leggi del
codice civile, più delle parole del presidente della Repubblica, perché hanno
una forza che tutte le altre cose non hanno: queste parole, rafforzate dalla
cruenza delle immagini, ti fanno sobbalzare dalla sedia, portano
involontariamente le tue mani a coprire lo sguardo per non vedere (come la mia
antipaticissima vicina di poltrona), ti entrano dentro, ti spaccano lo stomaco,
ti rendono inabile alla parola, ti fanno sperare che il regista abbia avuto il
“buon senso” di staccare l'inquadratura e di dare inizio ad un'altra sequenza.
La sequenza, al contrario, non si interrompe:
i fatti della Diaz e di Bolzaneto si susseguono sullo schermo con una
rapidità e una ferocia mai viste prima. Forse, fra te e te, ti dici anche che
le parole di Amnesty International, che ha definito gli episodi di violenza al
G8 di Genova come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese
occidentale dopo la seconda guerra mondiale” sono troppo leggere, troppo poche
per descrivere quello che sullo schermo appare come un casino volontariamente mal
gestito.
C'è un inno
alla civiltà nel film di Vicari. Un inno a condannare l'indifferenza (vedi
Santamaria nei panni di Max Flamini, capo del 7° nucleo) tanto quanto la
violenza. Un avvertimento: dimenticare non serve; serve ricordare, anche con
dolore. Per capire. Per ricordarci che sappiamo essere animali tanto quanto lo
sono quelli per definizione.
Lontano da una
presa netta di posizione, veicolata dalla condivisione di un determinato bagaglio
ideologico, Diaz – Don't Clean up this
Blood, spaventa perché racconta meglio di altri sistemi la verità. E'
sempre un film, certo. Ma è un film, che non potendo farsi telecamera della
realtà, la intervalla (filmati originali) con ricostruzioni evidentissime e
funzionali all'economia del film. Diaz
è anche un riparo alle tante occasioni perse, a quella convinzione tutta
italiana che se “parteggi per una parte” allora sei fazioso. Come se la verità
non potesse assumere una forma, come se la responsabilità oggettiva non
esistesse. Allora, per convincerti, cominci a inferire che i poliziotti hanno
avuto quel comportamento perché la pressione mediatica era insopportabile,
perché c'erano anche i black block, perché, forse, è stato commesso un errore
di valutazione. Giustificarsi e auto-giustificarsi non ha senso. Cercare la
fonte delle responsabilità, spesso, ne ha ugualmente poco. Restano i fatti: 93 attivisti sottoposti a
fermo di polizia, 61 feriti, 125 poliziotti indagati, un iter processuale al
momento fermo in Cassazione.
Diaz è un film da vedere e da soffrire. Un
testo che ci fa fare i conti con la nostra storia recente, che, tutto sommato,
ci dice che poco abbiamo imparato dagli orrori del passato (orrori non un errore di battitura). E’ anche un’occasione per rendersi conto che
fare film di qualità, oggi, è possibile. Basta la volontà e, talvolta, il
coraggio di assumersi il rischio. Diaz
è anche l’esempio dell’impegno e del lavoro: Vicari ha impiegato tre anni per
scrivere il soggetto del film e diversi mesi per la realizzazione. Bisogna
sottolineare, infatti, che al di là del tema del film, grande spazio dovrebbe
essere riservato all’opera in quanto prodotto cinematografico. Funziona la
scelta dell’intreccio narrativo, con un movimento allo stesso tempo corale ed individuale,
in cui, con una serie di flashback, vengono raccontate le storie dei singoli
personaggi, tutti attivi su uno sfondo comune: quella maledetta notte alla
Diaz. Punte d’eccezione, in un cast internazionale, il “nonno di tutti” Renato
Scarpa e l’attrice tedesca Jennifer Ulrich.
Solo due appunti: non sempre gli
effetti speciali conferiscono un maggiore effetto di realtà al prodotto. In
questo caso, la loro presenza è assolutamente superflua.
Cosa più importante:una sentenza
esiste, così come esistono gli atti processuali: sarebbe stato rischioso ma
apprezzabile dare ai personaggi le sembianze e i nomi degli effettivi
responsabili di quella scampata mattanza, non limitarsi alle iniziali: ne hanno
bisogno i ragazzi e i poliziotti della Diaz.